Play – Ruben Östlund (2011)

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Svezia. Un centro commerciale di Goteburg è il luogo ideale di molti giovanissimi ragazzi, che tra uno sguardo alle vetrine, una passeggiata sulle scale mobili e una tappa al McDonald trascorrono la loro giornata. Una gang di adolescenti di colore ha messo a punto una tecnica per truffare e rapinare i giovani più sprovveduti: fingere che il cellulare che possiedono appartenga in realtà ad uno dei loro fratelli, accusarli di furto, e con la scusa di chiarire portarli in una zona deserta e lì, sempre con varie scuse, toglier loro pian piano tutti gli oggetti di valore che possiedono. È il loro gioco.

La prima mezz’ora di Play disorienta: il minimalismo della messa in scena costringe a concentrarsi per non perdere d’occhio la storia. Östlund posiziona centralmente la macchina da presa lasciando che gli attori dispongano come vogliono dello spazio. A volte l’inquadratura è praticamente vuota, i personaggi disposti al limite, costringendo lo spettatore ad aguzzare occhi e orecchie per coglierle cosa succede fuoricampo. L’organizzazione delle sequenze appare quasi casuale, e nella mancanza di indicazioni su cosa è importante o meno ci si concentra ossessivamente su tutto, alla ricerca di un filo conduttore che non c’è. C’è la gang di piccoli delinquenti all’opera; una band di musicisti pellirossa suona in una piazza; in un treno si consuma la commedia di una culla abbandonata tra un vagone e l’altro col personale alla disperata ricerca del proprietario. La visione diPlay stressa, affatica, spazientisce, ma passata la prima ora si inizia a comprendere l’intento del regista: sta tutto nel malessere che lentamente invade chi guarda. La violenza dei giovani bulli è terribilmente reale, priva di quelle connotazioni drammatiche presenti solitamente nei “cattivi” dei film. Al contrario, si tratta qui di una prepotenza strisciante, nascosta dietro la commedia della recita messa in atto, continuamente giustificata. I ragazzi scherzano, ridono, prendono in giro, solo occasionalmente esplodono in scoppi d’ira, e soprattutto ci tengono a precisare che non hanno alcuna intenzione di rubare. È solo un gioco cui forzano le loro vittime costrette a seguirli, sottoposte a continue prove nel tentativo di essere lasciati liberi. Fare 100 flessioni, suonare un motivo, emettere versi, tutto serve per divertirsi. Intorno, l’indifferenza totale. Nessuno vede, nessuno agisce. Vince chi urla di più.

Vincitore a Cannes 2011 nella sezione Quinzaine des Réalizateurs, Play ricorda lo sguardo di Haneke: un sadismo apparentemente non elaborato, ma estrapolato dalla realtà quotidiana. L’inquadratura impersonale, poco interessata a centrare i suoi protagonisti, acquista a tutti gli effetti il valore di cornice come ritaglio effettuato direttamente sulla superficie  del mondo per poi esser  lanciato sullo schermo. In questi casi la domanda posta dal film ha forma confusa, poco chiara come la sua storia.  Östlund non chiarisce la sua posizione, né su quali punti desideri effettivamente riflettere. C’è l’immigrazione, certo, e il disadattamento, ma c’è anche il germe universale della violenza, fatto istintivo, banale, del tutto inconsapevole per i suoi stessi fautori. Non è solo la crudeltà dei bulli; è anche il desiderio di vendetta degli adulti, facilmente proiettato nello stesso spettatore nauseato dalla visione delle continue piccole, stupide angherie ai danni di ragazzini inermi e spaventati. Play consegna, a chi ha resistito fino alla fine, l’interrogativo sul senso della violenza, elemento che non è possibile rimuovere dal proprio essere a causa del necessario istinto di sopravvivenza, ma che non può nemmeno imporsi ancora come valore dominante nel Duemila. Sopratutto, rimane il dubbio amletico di come reagire alla violenza: un quesito troppo spesso semplificato nelle due posizioni contrarie della risposta violenta o della superiorità morale.

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