Quarantena

E’ la fatica di scendere a patti con i pensieri, prendersi l’impegno di legarli, concordarli, renderli coerenti, paragonata alla piacevole leggerezza di un flusso di coscienza dove le parole danzano e si mischiano. Eppure questi racconti non se ne vanno mai via, aspettano di essere riprodotti in una forma stabile. Che io li partorisca.

(allora era una stanza in Scozia, ora è una stanza a Roma. Dove c’è un cielo con nuvole, e un mandorlo in fiore, e un palo in mezzo. Mentre in questo luogo di bit, dove non torno mai, posso fuggire sapendo che oramai nessuno sa che può trovarmi qui, e posso sentirmi un segreto sussurrato in un buco della parete)

In un’epoca fatta di immagini io ho inseguito le cose che mi si ponevano sotto gli occhi, le ho inseguite per nutrirmene e trovare il senso in quell’emozione dello scorrere delle cose, e io stessa ho sognato di diventare immagine in movimento. E credo di aver capito qual è il mio dolore segreto, che come un incantesimo so vedere tutta la bellezza che c’è, e mi ci appoggio come sulle onde del mare, ma io, io no, non ne faccio parte, entro il perimetro della mia persona stava tutta la mia confusione, la meraviglia era solo fuori, l’avverto, la respiravo, ma non ero io, io non ero l’immagine che sempre mi emozionava.

Ehi, ciao.

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La fotografia: una questione molto personale

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“Circa il 99% degli testi critici, dei saggi e delle recensioni sono declinati alla terza persona singolare, o al massimo, a una prima persona plurale tesa a spogliare l’articolo di individualismo. È una buona norma, che ci ricorda come ogni speculazione intellettuale debba volgersi al piano più generale e obiettivo delle idee. Ora che mi accingo a scrivere dello status della fotografia al giorno d’oggi debbo però necessariamente parlare in prima persona, proprio perché oramai la fotografia è diventata una questione molto personale. Quando rifletto sul senso dell’immagine nella contemporaneità non cerco ispirazione nelle opere dei grandi artisti, o nelle mostre più visitate del momento: guardo quello che faccio io stessa col mio cellulare. Guardo la gente per strada. Guardo le immagini che appaiono sulla mia bacheca su Facebook. Controllo Instagram. L’evidenza della loro mediamente bassa qualità visiva non ha alcuna reale importanza: sento che per capire cosa sta succedendo alla fotografia devo uscire dai musei ed entrare nei social network. Che cosa è successo?” continua su Doppiozero

(p.s. il fatto che la sottoscritta appaia in una puntata del reality citato nell’articolo è puramente casuale)

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Robert Mapplethorpe: Look at the pictures!

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Look at the pictures! Guardate le immagini! urla ai suoi colleghi il senatore Jesse Helms a Washingthon D.C. all’inizio del documentario Mapplethorpe. Look at the pictures, edito da Feltrinelli. Tra le mani tiene una stampa che sventola rapidamente davanti alle telecamere perché se ne colga un fugace scorcio e nulla più: si tratta del celebre The Man in Polyester Suit (1980), dove un poderoso membro nero fuoriesce dall’abito impeccabile di un uomo senza testa. Dovrebbe essere un’immagine oscena, ma in realtà è una composizione molto raffinata. L’estrema eleganza estetica della fotografia, con il lungo pene nero perfettamente integrato nella costruzione della figura vestita, potrebbe riassumere in un solo sguardo l’apparente dualismo che è facile ritrovare nell’opera di Robert Mapplethorpe.

Il fotografo era consapevole di presentare nel suo lavoro elementi a prima vista eterogenei e opposti, quali la grande finezza visiva unita a soggetti intesi come “bassi” nella misura in cui accedevano alle pulsioni sessuali più viscerali. Nel film di Fenton Bailey e Randy Barbato viene mostrato l’invito per la sua prima mostra Polaroids (1973), costituito da una delicata busta di Tiffany & Co. con al suo interno l’immagine di due mani che stringono la macchina fotografica sopra un pube maschile, il pene coperto da un piccolo tondo adesivo rimovibile; nel 1977 le due differenti Pictures/SelfPortrait, una mano sobriamente vestita e l’altra adorna di guanto nero di pelle e bracciale con borchie, aprivano le due mostre Portraits e Erotic Pictures allestite in contemporanea a New York nelle gallerie Holly Solomon Gallery e The Kitchen. Pornografia versus ritratti di fiori, una dicotomia che Mapplethorpe superava affermando “nel fotografare un fiore mi pongo più o meno nello stesso modo di quando fotografo un cazzo. In sostanza è la stessa cosa. È un problema di luce e composizione (…) la visione è la stessa”. ” continua su Doppiozero

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Mario Giacomelli. Fotografia poetica (Mostra 2016)

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“Basta l’incontro con una singola immagine di Mario Giacomelli per capire di trovarsi di fronte a una fotografia poetica: ovvero, un lavoro in cui il mezzo, che è sia la macchina fotografica che la realtà che essa riprende, agisce allo scopo di esprimere qualcosa che è dentro e oltre l’immagine e il mondo da cui questa era stata attinta. Visitando la mostra La figura nera aspetta il bianco, a lui dedicata ora a Palazzo Braschi fino al 29 Maggio, si possono osservare varie serie fotografiche che richiamano un senso dello spirito originato dalla materia, da Ospizio a Lourdes, fino ai seminaristi giocondi de Io non ho mani che accarezzino il volto. La carne è qui un oggetto consumato che decade e soffre, sia per i vecchi all’ospizio che per i malati in preghiera, ma proprio dalle sue fondamenta crollate esala uno spirito di umanità, di dolcezza e rabbia che aumenta di pari passo con l’apparente crudezza delle immagini di Giacomelli: perché l’animo dei derelitti fotografati, derelitti comuni nella misura in cui tutti nella vita, invecchiando e ammalandoci, siamo destinati a diventarli, sovrasta i loro corpi come in una delle sue fotografie più famose, un bacio fra due anziani fragili il cui sentimento potente irride alla debolezza dei volti scavati dalle rughe, le schiene ingobbite e un bastone a sorreggere.

Non può mancare allora però nemmeno una malinconia che nasce dall’amarezza di sapere il sentire umano incastrato e infine interrotto dentro una materia fisica impietosa, immagine stessa del tempo, perché questo amore e questa tenerezza nascono e muoiono insieme ai corpi delle persone; mentre i seminaristi, uomini propriamente di spirito, nei loro giochi diventando sempre più vaghi e indistinti, macchie di nero mosse nel bianco, come impressioni rapidamente colte, e la lieve allegria catturata in forma di una sbavatura visiva ilare del tempo. ” continua su Doppiozero

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70 anni di Marina Abramovic

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“È impossibile non prendere sul serio Marina Abramovic. Non a caso una frase di Bruce Nauman, “L’arte è una questione di vita e di morte” torna spesso nei discorsi di questa icona culturale, madre e pioniera della Performance Art. La serietà del suo approccio artistico, il rigore e l’estrema disciplina sono infatti gli elementi che a prima vista risaltano dalla sua lunga vita di artista. Benché negli ultimi anni Marina sia diventata una sorta di personaggio mediatico anche per le sue collaborazioni con Riccardo Tisci, Givenchy e Lady Gaga, la sua fama si è sempre fondata sull’impegno estremo espresso in ogni sua opera come approccio di resistenza al dolore. 

Basterebbe solo l’esempio di Rhythm 0 a confermare quanto Marina per prima prenda sul serio la propria arte. A Napoli nel 1975 si consegna letteralmente alle mani del pubblico come oggetto inerte in una stanza, lasciando a disposizione su un tavolo 70 oggetti di ogni tipo, tra cui anche lamette e una pistola carica, che potranno essere usati su di lei per sette ore secondo il libero desiderio degli spettatori. Sono dunque quest’ultimi a realizzare una performance che è un vero e proprio studio sulla natura umana: dopo qualche ora, le persone nella stanza iniziano a usare veramente l’artista come un oggetto, toccandola intimamente, ferendola, tagliandole i vestiti. Marina accetta tutto senza muoversi, piange soltanto in silenzio, anche quando le succhiano il sangue dal collo. Diventa improvvisamente chiaro che l’artista si sta realmente prendendo la responsabilità di subire davvero su di sé qualsiasi atto, per quanto orribile e doloroso possa essere. In quella stanza rischia la morte e lo stupro, ma qualunque cosa accada non farà niente. Tocca al pubblico decidere cosa fare di lei. Con la naturale, crescente bestialità umana emerge parallelamente, come un vero esperimento sociologico, anche un atavico istinto di protezione: un gruppo di spettatori si incarica di proteggerla dagli assalti e quando un uomo le punta la pistola alla testa e sfiora il grilletto scoppia una rissa per fermarlo. Non appena la performance cessa e l’artista, in lacrime, si muove verso il pubblico, questo, che la riscopre umana dopo sette ore in cui l’ha usata come un oggetto, scappa via. ” continua su Doppiozero

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Happy Christmas, Children and Tigers!

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25 dicembre 2016 · 12:47

Gestazione per altri: cosa implica parlarne in Italia

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“È passato poco più di un mese dall’approvazione del DDL Cirinnà e continuo a pensare che in Italia non ci si sia accorti realmente del valore degli interrogativi portati avanti dal progetto di legge. Eppure, la reazione spropositata di molti interventi contrari (che andavano a toccare elementi assolutamente estranei al disegno concreto, soprattutto l’eventualità di regolamentare la pratica della gestazione per altri) indicava che si stesse toccando un punto dolente della nostra cultura.

Benché nei fatti il DDL non affrontasse minimamente la questione della gestazione per altri, si è fatta largo nel dibattito pubblico una visione distopica dove donne disgraziate si vendono per sfornare figli innocenti lautamente pagati da coppie omosessuali senza scrupoli.

In questo discorso si nascondono temi fondamentali per la nostra società, e che se la GPA ha monopolizzato per settimane il dibattito pubblico è perché miti secolari su chi siamo, cosa significa famiglia, cosa significa amore e cosa libertà rischiavano di cadere a pezzi.

La prima questione investe il senso di essere figli ed essere genitori e pone la domanda più complessa: di cosa ha bisogno un individuo per crescere serenamente?” continua su SR

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22.11.63 (2016)

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“Per affrontare la miniserie tv 22.11.63 bisogna partire da un concetto di per sé già troppo abusato, cioè che nella realtà tutto è relativo; sopratutto quando una serie televisiva trova in un libro il suo soggetto originario, e deve continuamente confrontarsi con esso. Il progetto, che vede fra i suoi produttoriJ.J. Abrams, nasce difatti dall’omonimo romanzo di Stephen King, uno scrittore talmente sfruttato dal cinema da essersi già riservato un posto a parte nella storia cinematografica come uno dei soggettisti più prolifici. In questo senso è bene specificare che proprio nel caso di22.11.63 il ruolo di King, e del suo libro, non è quello di fornire una storia, quanto un’idea liberamente sviluppata dalla sceneggiatrice Bridget Carpenter, con un risultato finale che si allontana parecchio dal canovaccio originale. Ecco spiegato il motivo per cui, questa volta, tutto è relativo: 22.11.63 acquista una luce diversa a seconda che lo si guardi come opera autonoma o, al contrario, come un effettivo adattamento televisivo. ” continua su Pb

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Love and Mercy – Bill Pohlad (2014)

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“A volte mi spaventa pensare da dove viene, sai?”. Un ragazzo seduto al piano si confronta con il potere creativo del proprio cervello. La musica è già lì, nella sua mente, deve solo riprodurla all’esterno nella maniera più fedele possibile; ma può capitare anche che quella stessa melodia gli esploda nel cranio terrorizzandolo. La vicenda diBrian Wilson, cantante e compositore dei Beach Boys, si dipana lungo il percorso noto dell’artista pazzo, un’immagine stereotipata che nel suo caso si rivelò drammaticamente esatta. Al culmine della vicenda artistica del gruppo, con l’uscita dell’album cult Pet Sounds e del singolo Good Vibrations, Wilson si imbarcava in quello che doveva essere il suo progetto più ambizioso,Smile, finendo però per collassare mentalmente sotto il peso del delirio allucinatorio, senza la lucidità necessaria a mantenere il controllo sul resto della band già scettica rispetto all’idea di allontanarsi dall’immaginario americano di surf, spiaggia e ragazze in bikini grazie al quale i Beach Boys avevano fatto successo negli primi anni Sessanta.” continua su Pb

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Brooklyn – John Crowley (2015)

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“Tanto tempo fa, i nostri nonni e bisnonni emigravano dai loro paesini in cerca di fortuna oltremare. Alcuni, dopo i primi tempi durissimi, trovavano lavoro, mettevano su famiglia e cercavano di mantenere, per la loro identità e quella dei figli, un legame solido con una patria originaria che diveniva una sorta di madre abbandonata, a volte dolorosamente rimpianta, altre rinnegata in nome delle conquiste ottenute sul posto d’adozione. Oggi che con la grande crisi economica ai dibattiti sulla liceità dell’immigrazione clandestina si è accompagnato il fenomeno della partenza di migliaia di giovani europei – e gli italiani ne formano una bella fetta – senza speranza di trovar a casa propria uno straccio di stabilità lavorativa, arriva un piccolo film quasi impalpabile tanto è tenue, a ricordare il dolore della nostalgia e della distanza forzata dal posto dove si è nati.

Brooklyn stupisce per la sua delicata intelaiatura: il film di John Crowley non è altro che un gentile racconto di formazione che segue le vicende della giovane Eilis (Saoirse Ronan), la quale negli anni Cinquanta è costretta ad abbandonare il villaggio irlandese dove è cresciuta con la madre e la sorella, spingendosi oltreoceano fino a Brooklyn, dove inizia a fare la commessa in un grande magazzino.” continua su Pb

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